Alle guide di Roma piace definire la città una “lasagna archeologica” e quando ci si sofferma ad enumerare i siti che permettono di esplorare il sottosuolo e scoprirne i gioielli nascosti (senza contare quelli non ancora accessibili o quelli non ancora scoperti!) non è difficile capire perché. Roma, come molte altre città nate lungo il corso di un fiume, ha subito un costante innalzamento della superficie nei secoli a causa dei detriti depositati dalle acque del Tevere a ogni straripamento, evento che prima della costruzione dei cosiddetti muraglioni (gli argini contenitivi realizzati dopo l’Unità d’Italia) avveniva con una certa regolarità.
Per avere un’idea immediata del tipo di alluvioni di cui stiamo parlando basta recarsi alle spalle del Pantheon e osservare la facciata della Basilica di Santa Maria sopra Minerva, che riporta delle placche posizionate all’altezza raggiunta dalle acque durante diversi allagamenti dei secoli passati.
Questo costante deposito di melma e detriti ha forzato spesso la popolazione a demolire edifici, precedentemente caduti in disuso e rimasti parzialmente seppelliti, utilizzando un metodo “rapido e indolore”: riempire gli interni degli edifici semi-sepolti con macerie e pietrisco, così da creare uno spazio solido perfetto per fare da fondamenta, ed erigere poi un nuovo edificio sui resti del precedente. Non dà proprio l’idea di diversi strati di pasta farciti da un delizioso ripieno storico?
Certo, può sembrare un concetto non semplice da immaginare quando spiegato solo a parole, per questo quando qualcuno mi chiede un esempio pratico della “lasagna archeologica” romana (o in generale di consigliargli un posto da visitare non molto noto e fuori dal solito tracciato, sebbene situato in posizione centralissima) non posso non suggerire uno dei miei tesori sotterranei preferiti della Capitale: la Basilica di San Clemente.
A due passi dal Colosseo, credo che la Basilica di San Clemente sia uno dei siti che meglio incarnano il senso di questa espressione: passeggiando lungo via di San Giovanni in Laterano, ad appena cinque minuti di cammino dai resti del Ludus Magnus, il profilo di questa chiesa potrebbe non catturare l’attenzione a un primo sguardo… dopotutto, è “solo” una delle quasi mille sparse su tutto il territorio della città. Anche decidendo di dedicare del tempo al suo interno si verrebbe accolti da un contesto non particolarmente dissimile da quello di altre basiliche minori di Roma, anche entrando dall’ingresso principale anziché quello laterale e attraversando il chiostro esterno.
Ma ciò che di speciale questo luogo riserva, lo nasconde nei suoi sotterranei: ben tre livelli al di sotto dell’attuale livello stradale, che permettono di scendere fino a circa venti metri di profondità e nel contempo tornare indietro di quasi duemila anni.
La scoperta

Gli scavi sotto la Basilica di San Clemente sono iniziati a metà dell’Ottocento quando Padre Joseph Mullooly, allora priore della comunità di Domenicani Irlandesi che amministravano (e tuttora amministrano) la chiesa, si interessò a cosa potesse celarsi al di sotto dell’edificio. Si dice che sia stato guidato in questa intuizione dal rumore di acqua che scorre che gli capitava di sentire mentre si trovava nella sua cella monastica. Da questo rumore nacque il suo interesse ad approfondire la storia precedente della basilica e, documentandosi, scoprì che l’edificio corrente era stato costruito sulle rovine di un’altra basilica paleocristiana risalente al quarto secolo e dedicata allo stesso santo (il quarto pontefice della Chiesa Cattolica).
Questa chiesa era caduta in disuso intorno al XII secolo, quando in parte a causa di precedenti saccheggiamenti inflitti dai Normanni la si ritenne inagibile e si attuò il metodo del riempimento degli spazi con pietrame per poter creare un robusto fondamento per una nuova costruzione sovrastante.
Non dovrebbe meravigliare che Padre Mullooly dovette documentarsi per giungere a questa conoscenza: passati diversi secoli, la memoria di quella precedente basilica si era infatti perduta (molti ritenevano che gli scritti che individuavano una chiesa dedicata a San Clemente in quell’area si riferissero proprio alla costruzione attuale)… cosa che è accaduta anche in molte altre aree di Roma, motivo per cui il ritrovamento di alcuni siti sotterranei continua spesso a suscitare non poco stupore al momento della loro scoperta.
Gli scavi che riportarono alla luce il livello del IV secolo non furono però gli unici, in quanto la fonte del rumore che aveva guidato il priore fin lì non si trovava in quell’area e si decise perciò di continuare a scavare, giungendo presto a un livello inferiore che venne fatto risalire a tre secoli prima. Ampliando il raggio degli scavi si notò in realtà un leggero sbalzo (di altitudine, anche se solo di pochi gradini, ma anche di datazione) all’interno di quest’ultimo livello: quella che venne indicata come un’insula, cioè un agglomerato di costruzioni delimitato sui quattro lati da strade (quello che oggi definiremmo, appunto, un “isolato”) risalente al I secolo e, in quella che deve essere stata una sorta di cortile appartenente a una domus romana dello stesso periodo, un tempietto pagano costruito intorno al II secolo e dedicato al dio Mitra.
Vediamo quindi livello per livello cosa è stato portato alla luce dagli scavi nei sotterranei della Basilica di San Clemente…
La basilica attuale: un patchwork di stili

Ho scritto prima che l’interno della chiesa tuttora in uso non è particolarmente diverso da quello di altre basiliche romane, tuttavia ci sono dei dettagli degni di nota. Infatti, nonostante “l’involucro” dell’attuale Basilica di San Clemente risalga al XII secolo, vi si sono susseguiti così come in molte altre chiese di Roma interventi di ammodernamento e modifiche nell’arco dei secoli, che hanno arricchito la struttura iniziale accostando elementi medievali come il prezioso mosaico in stile bizantino nell’abside (da poco restaurato) e il magnifico pavimento cosmatesco (decorato dai maestri Cosmati con tessere in marmo di colore diverso sistemate secondo schemi geometrici nello stile che li ha resi celebri) ad affreschi cinquecenteschi e a un controsoffitto ligneo riccamente intarsiato in stile barocco.
L’alternanza di stili diversi e il “riciclo” creativo è perfettamente visibile nel colonnato che delimita la navata centrale, fatto di colonne tutte diverse l’una dall’altra poiché provenienti da diverse costruzioni di epoca precedente. Culmine di questo “collage” è l’altare, che a colpo d’occhio non sembra particolarmente fuori posto proprio per via dell’eclettismo stilistico di questo livello, ma che risale in realtà al quarto secolo ed è… l’altare della chiesa sottostante, scambiato con quello del XII secolo nel momento in cui quest’ultimo livello è stato completato.
Pare che questo altare contenga i resti di San Clemente in persona, portati a Roma solo nell’ottavo secolo. A identificare il santo è il simbolo a lui attribuito, ovvero l’ancora: si dice infatti che San Clemente morì gettato nel Mar Nero con un’ancora legata al collo. L’uomo era stato esiliato in Crimea per non aver rispettato l’ordine di non predicare pubblicamente il Cristianesimo in una Roma non ancora incline a tollerare la nuova religione. Purtroppo, anche in esilio, Clemente non aveva smesso di dedicarsi a evangelizzazione e miracoli, cosa che aveva spinto l’imperatore a mandare dei sicari per finirlo… ma la leggenda vuole che il suo corpo non si disperse nel mare, bensì venne recuperato da due angeli e racchiuso in una bara, poi trasportato in un punto in cui una volta all’anno la bassa marea avrebbe rivelato il sepolcro ai fedeli radunati lì attorno per venerarlo.
Il rientro a Roma dei resti dell’ex-Papa si deve ai santi Cirillo e Metodio (noti tra le altre cose come evangelizzatori delle popolazioni slave), celebrati in un angolo dedicato del livello inferiore della chiesa proprio per aver permesso alle spoglie di San Clemente di raggiungere il luogo di culto che era stato eretto in suo onore quattro secoli prima.
Poco prima di passare la porta che conduce alle scale, si notano sulla parte bassa della parete di fianco degli archi in mattoni, visibili in punti in cui lo stucco è stato rimosso: si tratta delle arcate del soffitto della basilica inferiore, che è stato abbassato nel momento in cui si è deciso di costruire sopra al vecchio edificio.
La basilica del IV secolo: altari, affreschi e… volgarità!

Scendendo di un livello si è accolti in un ambiente incredibilmente ampio per un sotterraneo, che va a restringersi in corrispondenza della struttura superiore (la zona in cui il soffitto originale è stato abbassato per rendere lo spazio sottostante da riempire più “compatto”). Durante gli scavi sono state rimosse enormi quantità di detriti… che odio definire così perché, nell’entrare in questo livello, ci si accorge in realtà che si tratta di veri e propri reperti archeologici! Le pareti sono infatti incastonate di pezzi di statue, capitelli di colonne, frammenti di lastre con iscrizioni e molto altro… praticamente pezzi da museo che però, allora, erano quasi spazzatura che si trovava per strada, da usare tranquillamente come “materiale edilizio”.
Nel rimuovere le grandi quantità di questo materiale non è stato tuttavia possibile rimuovere pareti che fungono ormai da supporti strutturali, che dividono l’ambiente in modo che entrando nella navata centrale della ex-basilica di San Clemente sembra di entrare in una chiesa più piccola rispetto a quella superiore. In realtà il complesso del IV secolo era molto spazioso e decorato con affreschi che raccontano vari episodi della vita del santo (la maggior parte ancora ben visibili, seppure non in ottimo stato).
Di questi il mio preferito non può che essere quello situato a pochi passi dall’altare principale sulla sinistra, che racconta di un miracolo di Clemente ai danni di un uomo, Sisinnio, che aveva dato di matto nello scoprire che la moglie si era segretamente convertita al Cristianesimo, unendosi alla Chiesa dell’allora Papa. Clemente aveva placato l’uomo rendendolo temporaneamente sordo e cieco. In seguito, recatosi a casa sua per restituirgli vista e udito, il santo aveva ancora una volta incontrato l’ira di Sisinnio, che aveva intimato ai suoi servi di catturare l’intruso e trascinarlo fuori… cosa che gli uomini avevano provato a fare ma, confusi da un altro miracolo, sono finiti in realtà per trascinare fuori una colonna. Certi però di avere tra le mani il pesante corpo di Clemente, le frasi che si leggono incise intorno all’affresco (in italiano volgare) sono gli incitamenti che i due uomini si fanno a vicenda e gli ordini loro impartiti dal padrone. Il motivo per cui lo adoro? Beh, perché il linguaggio scelto dagli uomini è piuttosto colorito, quindi quello che si legge a due passi dall’altare principale della Basilica di San Clemente è un elegantissimo (traduco in italiano moderno) “Tirate, tirate, figli di pu****a!”.
Il mitreo del II secolo: il tempio pagano di un culto esotico

Superata la navata laterale della basilica inferiore e la zona in cui capeggiano da un lato il mosaico degli anni ’70 del secolo scorso e dall’altro l’altare commemorativo dedicato a San Cirillo e Metodio, un’altra rampa di scale porta a un’area molto più raccolta, con panche di pietra e dal soffitto a volta decorato con stucchi in rilievo. Questa area era l’anticamera di un tempio mitraico, un culto portato a Roma tra il primo e il secondo secolo da soldati di ritorno da campagne militari nel Medio Oriente. La divinità principale, Mitra, è rappresentata nell’altare al centro della stanza al di là di una grata, quindi oggi non accessibile al pubblico. Come in altre rappresentazioni dello stesso dio, Mitra appare qui nell’atto di sgozzare un toro, che si dice essere parte del mito della creazione per il culto mitraico.
Sebbene questo altare originale non sia avvicinabile, al piano superiore è presente una copia a disposizione dei visitatori per studiarne i particolari, come gli altri animali appartenenti all’iconografia mitraica (un corvo, un serpente, uno scorpione e un cane) e l’aspetto del dio stesso, al contempo esotico (con il suo copricapo in stile persiano) e familiare per un soldato romano, visto il mantello e l’armatura che conferiscono a Mitra l’aspetto di una divinità guerriera.
Non è difficile capire il fascino che questo culto abbia esercitato sui militari romani, abituati a una cultura politeista e provenienti da una città che già allora poteva definirsi multiculturale, disseminata di templi non solo di divinità “istituzionali” romane, ma anche di quelle importate dai molti territori più o meno distanti inglobati nell’Impero.
Inoltre, come spesso accade nell’assorbimento di una religione da parte di un popolo, alcune caratteristiche radicate di una certa tradizione vengono affibbiate anche al nuovo culto, per renderlo più familiare e quindi più facilmente accettabile… simili “aggiustamenti” sono stati fatti con lo stesso Cristianesimo, a partire dalla codifica del giorno di Natale (periodo scelto come ricorrenza per la nascita di Gesù perché già celebrata da varie culture come quella ebraica, quella celtica e dagli stessi antichi romani, che a ridosso del solstizio d’inverno festeggiavano i Saturnali). Il culto mitraico non fa eccezione, riportando caratteristiche comuni ad altre religioni allora contemporanee: Mitra, tra le altre cose, era figlio di una vergine e apparentemente nato nella seconda metà di dicembre, mentre la sua associazione con la divinità del Sole aveva fatto sì che la cultura ellenica ne assorbisse il culto avvicinandolo alla figura di Apollo.
Pare che, anche dopo l’inizio della costruzione della Basilica di San Clemente nel IV secolo, il culto mitraico non scomparve immediatamente, ma il tempio (leggermente sottoterra rispetto al nuovo edificio) continuò a essere frequentato finché la religione non venne dichiarata ufficialmente illegale. Solo a quel punto la costruzione della basilica cristiana si estese fino a coprire l’accesso al mitreo, che venne interrato e dimenticato.
Sulla sinistra dell’ingresso della sala dell’altare (un tempo il centro spirituale del tempio, ovvero quello in cui si svolgeva il culto vero e proprio e venivano praticati i rituali mitraici) è possibile vedere una lastra con incisa una linea, che indica il livello dell’acqua nel 1912. Quando gli scavi raggiunsero questo livello in quell’anno, infatti, gli archeologi lo trovarono completamente allagato e fu necessario realizzare un canale per far defluire quest’acqua. Una volta fatto, tuttavia, ci si accorse che la fonte (presumibilmente quell’acqua corrente che Padre Mullooly riusciva a sentire da metri più su) non era ancora stata localizzata. Si proseguirono perciò gli scavi verso un livello di poco inferiore a quello del mitreo, o per meglio dire affiancato.
Le costruzioni del I secolo: abitazioni romane e… la fonte sorgiva!

Dal II secolo si passa, scendendo un paio di gradini, all’area che è stata indicata come una domus accanto a un’insula romana. Questa zona, datata I secolo, è divisa dal mitreo (realizzato in un’area contigua un secolo dopo) da uno stretto vicolo venuto a crearsi con l’erezione delle pareti del nuovo edificio… non chiedetemi perché ma di tutto questo incredibile complesso è il pensiero di questa minuscola, insignificante stradina romana ad emozionarmi di più.
Nella sezione risalente al primo secolo è ancora possibile camminare su un pavimento originale a trama a spina di pesce (un po’ sformato ma, vista l’età, direi che si porta comunque piuttosto bene i suoi quasi duemila anni!), vedere le pareti a blocchi tufacei e muoversi da un ambiente all’altro, tra le stanze che si sviluppano attorno a quello che un tempo deve essere stato un cortile.
Pare che quest’area sia stata abbandonata nella seconda metà del primo secolo, a seguito del terribile incendio del 64 d.C. che distrusse tre quarti della città e in seguito attribuito (se a ragione o meno è ormai ampiamente dibattuto dalla maggior parte degli storici) a Nerone.
Qui il rumore dell’acqua che scorre è ormai impossibile da ignorare, e seguendolo si giunge alla vera e propria fonte sorgiva.
Spero di avervi incuriositi, qualora non conosceste questo esempio concreto di “lasagna archeologica” a Roma, a esplorarne i sotterranei per viaggiare indietro nel tempo… uno strato dopo l’altro.
L’ingresso alla Basilica di San Clemente è ovviamente gratuito, mentre per scendere nei livelli sottostanti si paga un biglietto di 10€ a persona (con riduzione del 50% per studenti e gratuità per ragazzi al di sotto dei 16 accompagnati da un adulto pagante).
Il complesso è aperto tutti i giorni dalle 10:00 alle 12:30 e dalle 15:00 alle 17:30 (ultimo ingresso concesso alle 17:00)*; la visita turistica non è ovviamente concessa in caso di funzioni religiose.
Sfortunatamente padre Mullooly non arrivò mai a calpestare personalmente il terreno in tutti i livelli al di sotto della sua chiesa, dal momento che venne a mancare prima che venissero completati gli ultimi scavi (diretti da Padre Nolan a inizio Novecento). Mi piace però pensare che da qualche parte stia tuttora vegliando sulla sua scoperta, un tesoro nascosto in bella vista di cui i visitatori a Roma (e anche qualche locale che, non troppo sorprendentemente, non ne aveva mai sentito parlare prima) possono ancora oggi godere, attraversando i secoli solo scendendo qualche rampa di scale… e mi piace credere che la sua anima si sia messa in pace nel constatare che sì, dell’acqua che scorreva lì sotto c’era davvero!
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