Qualche anno fa il gesto di due neo-genitori di distribuire dei “pacchetti-scusa” su un aereo in partenza è diventato a dir poco virale, scatenando successivamente un acceso dibattito online sulla necessità o meno di accattivarsi in anticipo le simpatie dei vicini di posto con simili accortezze quando si viaggia con un bambino piccolo.
Fondamentalmente l’idea, poi adottata da molti altri negli anni a seguire, è di consegnare una piccola goody-bag riempita di oggetti quali gomme da masticare o mentine, snack vari, tappi per le orecchie e chi più ne ha più ne metta a chi siede intorno alla famiglia in questione. La bustina viene poi corredata da un biglietto, a volte scritto come se fosse il bimbo stesso a pronunciare quelle parole, in cui si spiega che il piccolo non è abituato al volo, che si farà di tutto per mantenerlo buono ma ci si scusa in anticipo qualora ciò non sarà possibile.
La notizia della coppia che ha adottato quest’idea nel 2014 su un volo diretto a Miami è stata pubblicata su Reddit da uno dei riceventi della goody-bag, un passeggero autodefinitosi alla stregua di un Grinch che è stato immediatamente ammorbidito dal gesto. Today ha raccontato la faccenda qui, in seguito pubblicando anche un contro-articolo di condanna al sentimento che fa sentire i neo-genitori “in difetto” e in dovere di scusarsi per comportamenti che sono normali in un neonato.
Le opinioni si sono ovviamente divise tra chi ha appoggiato la pratica e chi l’ha scoraggiata fortemente. Personalmente mi sono trovata da entrambe le parti della barricata e, pur non avendo ancora figli, mi sento perlopiù di spezzare una lancia a favore delle coppie che hanno piacere di continuare a viaggiare nonostante un nuovo arrivato in famiglia. La trovo innanzitutto una forma di coraggio scegliere di non rinunciare a una propria passione nonostante i tanti impegni e gli ostacoli, sia logistici che finanziari, che l’arrivo di un figlio può comportare.
Ovviamente mi riferisco perlopiù a coloro che partono per gusto personale e, perché no, per creare nuove memorie di famiglia aprendo anche i figli al piacere della scoperta, non a quelli che devono a tutti i costi mettere delle spunte sul proprio personale mappamondo e magari Instagrammare i propri figli in una gara mediatica “a chi ce l’ha più lungo” (“Mia figlia viaggia da quando ha quattro mesi” – “Davvero? La mia l’ho messa su un aereo per le Bahamas a sette minuti dalla nascita!”).
E in risposta alle critiche sul perché disturbarsi a partire per mete più o meno esotiche con bambini di pochissimi anni, che si presume quindi non ricorderanno nulla dell’esperienza, proprio qualche settimana fa avevo affrontato il discorso con una dei miei migliori amici (tra le altre cose mamma di un treenne) giungendo a un pensiero comune: devo per forza fare qualcosa solo perché mio figlio se ne ricordi? Non può essere un bellissimo ricordo per me, un ricordo che magari rispolvereremo insieme tramite foto quando sarà abbastanza grande da capire e farmi domande in proposito? E non sarebbe bello che quel ricordo per lui sfocato stimoli la curiosità e il desiderio di scoprire di nuovo certe destinazioni quando sarà abbastanza grande da farlo da sé?
Tornando alla questione goody-bag, invece, mi spiace vedere spesso come alcuni passeggeri lancino occhiate gelide nel momento in cui viene imbarcata una mamma con in braccio un bambino, supplicando il cielo di non essere lo sfortunato che si troverà il (sicuramente) rumoroso baby-passeggero accanto. Ripeto, mi sono trovata in entrambe le posizioni, non sto dicendo di essere la Madre Teresa della situazione: mi è capitato anche di viaggiare su un mezzo pubblico con pochissime ore di sonno sulle spalle e aver provato il desiderio di sprofondare al pensiero di urla e pianti. Ma si tratta, come il nome stesso suggerisce, di mezzi pubblici, quindi non ci si può ragionevolmente aspettare di essere gli unici a bordo… né tantomeno che vengano effettuate selezioni sulla base dello status sociale: solo single e attraenti, niente coniugati con prole!
Certo, come suggerisce l’autore di questo articolo sul New York Times, un’idea che varie compagnie potrebbero perseguire sarebbe creare spazi family-friendly e chiedere un supplemento ai passeggeri che desiderano evitare a tutti i costi di trovarsi a portata d’orecchi degli occupanti di tali aree. Qualcuno potrebbe recriminare che è assurdo che “gente che vuole solo viaggiare in santa pace” debba vedersi addebitare una sovrattassa per questo lusso, ma non è vera la stessa cosa della scelta del posto in generale? Molte compagnie, non solo le low-cost, consentono di scegliersi la sistemazione a bordo dietro pagamento di un extra: perché una persona che richiede di essere accomodata lontano da una famiglia con bambini dovrebbe essere trattata con modalità diverse rispetto, ad esempio, a un poveraccio alto due metri che paga un extra per avere più spazio per le gambe? Non l’ha scelto lui di avere gambe lunghe, eppure deve pagare per la propria comodità… così la tranquillità di una zona child-free potrebbe essere vista alla stregua di un servizio optional. E l’autore dell’articolo ha ragione anche nel dire che è paradossale che nessuna compagnia abbia ancora pensato seriamente alla prospettiva economica che questa iniziativa comporterebbe…
Non mi sento in realtà di concordare in toto con la sua opinione, in quanto a grandi linee sostiene la discussa pratica di ingraziarsi i vicini di posto con le goody-bag (anche se lo fa associando il gesto a una sorta di contratto sociale, paragonandolo a situazioni come l’avanzare meno rimostranze verso il collega che chiede di uscire un’ora prima dal lavoro perché ha portato i dolcetti in ufficio la settimana prima). Ma per quanto da un punto di vista sociologico sia corretto affermare che l’aereo (o mezzo pubblico in generale) sia un ambiente condiviso temporaneo in cui il non formare contatti duraturi crea meno remore nel rendersi fastidiosi (o nel protestare verso comportamenti altrui ritenuti tali), d’altro canto la trovo una giustificazione piuttosto debole per certe manifestazioni di astio gratuito a cui ho assistito nel tempo… e non solo nei confronti di famiglie che viaggiano con bambini piccoli! Un mezzo pubblico può essere un microcosmo a sé quando si tratta di esternare le proprie frustrazioni a lungo represse…
Sono tendenzialmente d’accordo con Rebecca Dube, l’autrice dell’articolo di Today che invita invece a boicottare la pratica in quanto porrebbe i genitori in una posizione apologetica per principio, come se debbano scusarsi per l’esistenza dei propri figli: i neonati piangono, esprimono i propri malesseri in questo modo, è naturale. Un neonato non capisce il concetto della compensazione pressoria durante un volo, mentre un adulto con il mal d’orecchi si limita a una smorfia il bambino (indovinate?) piange! Senza contare, come giustamente ribadito anche dalla Dube, che non tutte le famiglie con bambini che incontrerete in viaggio stanno viaggiando per piacere. Sentirsi in dovere di scusarsi in anticipo per comportamenti che sono spesso fuori dal controllo del genitore stesso è una pressione sociale a mio vedere del tutto evitabile. Considerando poi che si sa quanta roba una coppia con bambini piccoli abbia necessità di portare con sé, anche solo per una passeggiata al parco: con tutte le borse di pannolini, le salviette, le pappette, senza contare le restrizioni sui bagagli a mano se si viaggia in aereo, davvero i genitori devono trovare spazio (e spendere soldi) anche per un numero imprecisato (una degli host di Today nel video allegato al primo articolo ha ironicamente sollevato un quesito tutt’altro che banale: quale ci si aspetta che sia poi il raggio da coprire? Una fila di distanza, due, otto?) di bustine di caramelle e sfizi per “corrompere” i vicini di posto? E tu, vicino di posto che hai alzato gli occhi al cielo quando hai visto arrivare il pargolo, cambieresti davvero del tutto atteggiamento solo perché ti hanno comprato dei cioccolatini? Magari è meglio che i genitori utilizzino quello spazio per portarsi il necessario per far dormire comodamente il bimbo (qualora le ore di volo siano compatibili con i suoi ritmi sonno-veglia) e per intrattenerlo al meglio nelle lunghe ore di stasi, anziché riempirlo di pensierini per ingraziarsi i compagni di viaggio.
Per carità, non nego la carineria del gesto in sé… a chi non fa piacere un regalo totalmente inaspettato? Ma trovo sbagliato che si faccia passare il messaggio che i genitori debbano mettere le mani avanti su una circostanza tutt’altro che voluta: se un passeggero random si sente infastidito dal pianto del bambino, figuriamoci come debba sentirsi il genitore, che magari non ha neanche dormito la sera prima e che oltre al fastidio del rumore in sé ha anche il disagio di sentirsi decine di occhi addosso.
Mi è capitato di esternare questo pensiero durante una passeggiata a Capri un paio di estati fa, mentre rientravamo dai Giardini di Augusto con una coppia di nostri amici e la loro bimba che, in quel momento, era presa da normalissimi capricci dovuti a stanchezza. Ecco passare una signora che ci sorpassa e poi inizia a voltarsi in continuazione con un’espressione mista di seccatura e pietà. Quando la smorfia si fa evidentemente di disturbo e dal labiale leggo anche quella che potrebbe essere la classica critica di chi chiaramente “sa cosa è meglio” (anche con i figli degli altri…?), non resisto più e allungo casualmente il passo per avvicinarmi a chiederle con nonchalance quale sia il problema. “La bambina ha chiaramente dei problemi e nessuno fa niente!”, accusa lei. “La bambina è con i suoi genitori e non ha altro problema se non semplicemente essere stanca”, ribatto io, “e francamente non trova che un bambino che fa i capricci in pubblico possa già creare qualche disagio ai genitori senza che il primo che passa si metta a puntare il dito con arroganza?”.
Magari in certi casi, che sia il bambino che fa i capricci lungo la strada o quello che piange sull’aereo perché non abituato alla pressurizzazione della cabina, la reazione migliore è lo sguardo di silenzioso supporto descritto nell’articolo della Dube: “Ti capisco e non ti rimprovero per aver portato ‘sul mio volo’ un bambino che si comporta semplicemente come un bambino”. E per quanto ricevere un’inaspettata goody-bag a inizio viaggio strappi sempre un sorriso, potrebbe essere carino accettarla con un sentito “Grazie, ma non ce n’era bisogno”. Avete tutto il diritto di viaggiare anche voi…
Nota a margine: Tutto questo premesso, ci tengo però a precisare che, sempre sulla base delle mie esperienze, mi sento di fare un ovvio distinguo in base all’età di suddetti pargoli: sono neonati o sono bambini abbastanza grandi da capire il fastidio che possono arrecare a chi gli sta intorno? Perché, quando parlavo di stare dalla parte della critica, mi riferivo a circostanze come, ad esempio, un rientro in treno con un gruppo di turisti dopo una lunga e afosa giornata in Costiera Amalfitana. Il gruppo di cui ero responsabile era a dir poco stremato e a due file di distanza da noi c’era una bambina di età sufficiente a capire il concetto di “la gente dorme, fa’ la brava” (se solo le fosse stato detto) che lanciava urletti acuti e inarticolati a intervalli regolari, apparentemente solo per passare il tempo. Passata una buona ventina di minuti senza aver visto né sentito intervenire la giovane madre seduta lì accanto, mi sono permessa di avvicinarmi con un sorriso di comprensione stampato in faccia, quasi scusandomi io del disturbo che stavo causando loro. Chiedo cortesemente che dica alla figlia di tranquillizzarsi perché tra i passeggeri nel vagone c’erano persone, anche di una certa età, che non si erano fermate un attimo dalle sei di quella mattina. A rispondermi arriva un secco e altero: “È una bambina”. Interessante notare quindi come si possa passare da un estremo all’altro: dalla necessità di scusarsi preventivamente per un neonato che potrebbe (o non potrebbe) fare il neonato durante un viaggio, al ripararsi (anche con un certo sussiego) dietro la scusa che “i bambini sono bambini”. È così davvero? Beh, dipende…
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